IS IT A VIDEO?

Si erano conosciuti due giorni prima ed era stato subito il più classico dei cliché. Un archeologo greco altissimo a un convegno di papirologia. SBAM. Ciao. Ciao. Caffè? Il novanta per cento dei greci uomini con cui aveva avuto mai a che fare continuavano imperterriti a essere a) di Salonicco b) altissimi c) appassionati di basket. Almeno due delle tre condizioni si compivano sempre. Cosa ne era stato, per esempio, degli ateniesi?

A due terzi del convegno trascorsi e molti caffè e chiacchiere ormai sviscerate su Istanbul, luoghi ideali dove vivere, capelli bianchi prematuri, ecco una spontanea visita al Prado con altri del gruppo. Inverno, la città esageratamente addobbata fuori e il museo del tutto esente dall’esibizionismo ottimista del Natale. Essere in un posto unico e caro alla sua memoria e avere la consapevolezza di non rivedere questa persona mai più, sapendo tra l’altro di poter essere motivo di chiacchiere del resto del gruppo, e un po’ compiacersene e un po’ fregarsene.

Ridere delle descrizioni incomprensibili, non avere remore nel dire di non aver riconosciuto un Velázquez e non ridere quando sono gli altri a non riconoscere Goya, lasciarsi fotografare in quel contesto e scoprire di essere belle nei telefoni degli altri. Affetto che cresce. Tenersi per mano prendendo le curve tra una sala e un’altra, dire al volo al gruppo “ci vediamo dopo” e scappare in due per le scale e le gallerie per vederne il più possibile prima della chiusura.

Non era sicura di volerci pensare davvero, ma non riusciva a controllare il macinino delle emozioni e concentrarsi solo sul momento, che stava diventando morbidissimo, in realtà. Stava sovrascrivendo parte delle sue memorie? Si riescono a creare nuovi percorsi dentro spazi noti? E i corpi? Cosa fanno quando si sono vissuti tanti prima? Erano l’ottimismo e la fiducia improvvisi verso quel preciso instante a darle allegria? Stava davvero stravolgendo i propri ricordi e facendoli virare verso qualcosa di positivo e attuale o era altro?

Era un’altra la ragione profonda di quella allegria, quella che fa sorridere senza pensare alle rughe, ma ci arrivò un paio di giorni dopo.

Era replicare una cosa: il correre dentro il museo, cosa che aveva fatto dieci anni prima con una persona altrettanto alta che aveva poi perso. Se ne era dimenticata addirittura, di aver corso con lui dentro a un altro museo, in un altro paese.

Il museo è uno spazio sicuro per chi ci sta dentro e inarrivabile per chi ne resta fuori, in cui si replicano sistemi di interpretazione semi-inaccessibili e tramandati di generazione in generazione all’interno della stessa classe sociale.
L’idea di correrci dentro riporta subito Bande à part alla memoria, e tutte le suggestioni adolescenziali delle estati passate a depennare film di Godard e Truffaut uno ad uno da una lista di “film da vedere prima di compiere 18 anni”. Forse proprio per l’imprinting dato da quella scena, dalla sensibilità di tutte le relazioni d’amore di quei film le cui sfaccettature avrebbe compreso solo una decina di anni più tardi, mai avrei pensato di poterlo fare lei stessa, addirittura due volte.

Quanto poteva sentirsi grata per aver vissuto due volte un’emozione del genere? Per quanto si possa cercare di smettere di averne voglia, ci si riesce mai davvero? Eccola, la ragione vera. Sentire voglia e sapere che quello che l’ha fatta rifiorire sta già sfuggendo via di nuovo.

“We rip out so much of ourselves to be cured of things faster, that we go bankrupt by the age of 30 and have less to offer each time we start with someone new. But to make yourself feel nothing as in not to feel anything. What a waste”*.

Foto: Museo archeologico di Istanbul, settembre 2019

*dalla sceneggiatura di Call me by your name, di Luca Guadagnino, 2017

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