Oltre il Po

Arrivare al Nord dal mio Sud coincide per me col risalire la via Emilia.

Sono trascorsi più di dieci anni dall’ultima volta che mi sono spinta oltre Bologna in quella direzione. Le colonne d’Ercole della mia Italia hanno coinciso per almeno dieci anni con il Reno e l’aeroporto Marconi. Un paio di volte avevo deviato il tragitto Berlino-Italia virando su Venezia, ma in tutta onestà quello che succedeva da Bologna in poi io sono anni che lo vedo soltanto atterrando da un aereo. Ce l’ho avuto in mente soltanto come una carta geografica fisica per così tanti anni che la dimensione tangibile di quegli spazi l’avevo dimenticata.

Le altane. I gelsomini strabordanti i terrazzi in giugno. Le abbazie incorporate nella griglia urbana, i canali coperti, i cortili interni, le darsene scomparse, i canali aperti, le porte cieche, i giardini dei chiostri, i palazzi medioevali, i teatri comunali, il velluto rosso. I glicini che aspettano maggio. I portici, i palazzi di pietra, le ville che decorano le colline, le guerre di religione, gli intonaci rosso ocra giallo caldo terra di siena bruciata, le persiane azzurre e le tende bordeaux.

I palazzi ducali, i palazzi dei Podestà, i palazzi comunali. Modena, Bergamo, Bologna, Parma. 

Sto andando fino a Milano per proseguire poi per Bergamo e inoltrarmi fino al lago di Iseo. Fa molto freddo e il cielo a Bologna è grigio, banale e opprimente insieme. Prendo per un pelo un treno di alta velocità infognato nei bassifondi della stazione, e io, pur sapendo che quei binari sono lontanissimi, mi lascio infinocchiare dal traffico mattutino locale e arrivo sudata e con gli occhiali appannati.

Passa un secondo e scopro che la stazione di Reggio Emilia di AV, pur essendo leggera e bella e impressionante, è in mezzo ai campi e vicina all’autostrada; mi rendo conto della fortuna di aver vissuto buona parte della mia vita in prossimità di nodi di svincolo e penso alla scomodità estrema di questa stupida stazione. Sospiro, non capisco a che velocità andiamo. Mi mancano gli schermi dei treni ad alta velocità spagnoli in cui viene detto in tempo reale a quanto sta viaggiando il treno, e che guardando fanno tornare all’infanzia stupiti e compiaciuti per il fatto di essere su un mezzo che sta andando a 300 chilometri orari. Qui invece non c’è niente a indicarti che sei sproporzionatamente veloce rispetto a tutto quello che hai intorno. Solo le scie da esposizione lunga di pioppi e filari e di tutte le auto della A1 te lo suggeriscono. 

Il Po. Enorme per come era rimasto nella mia memoria. Grigio. Un secondo in alta velocità. Cerco di scattare una foto; non ci riesco. Poco dopo il cielo si apre e vedo quelle che credo siano le Alpi. Mi si riempie la testa di una leggerezza simile a quella che mi sento addosso quando finisco due ore di Vinyasa Flow con la mia maestra. Sono emozionata. Una nostalgia di spazi che finalmente finisce. Sono lì davanti, e resto da questa parte, forse potrò quasi vederli quando voglio. Un’illusione di benessere dopo anni di distanza passati a smettere di emozionarmi per non piangere ogni volta che ripartivo.

Ricordo improvviso e agrodolce per un tempo che sembra lontanissimo, quando dieci-dodici anni fa andavo in regionale da Pesaro a Parma e da Parma a Milano, senza scendere al capolinea di Piacenza su suggerimento di un ferroviere gentile. Visto che il regionale per Milano iniziava appunto pare a Parma lui, mi aveva consigliato di scendere lì così da trovare sempre posto, come se a Piacenza fosse stato pieno il mondo di gente che voleva andare a Milano. Ma gli ho creduto sempre. La diffidenza verso Piacenza e quei posti di cui sbaglio sempre l’appartenenza (Mantova: Veneto Emilia o Lombardia? Cremona: Lombardia o Emilia? Piacenza: Lombardia o Emilia?) potrebbe aver origine in quei viaggi infiniti quando non c’erano voli su Bologna che mi servissero e costassero poco e andavo fino a Malpensa o Orio al Serio per prendere un aereo. Ma poi c’era il Po. Fondamentalmente infatti scendere a Parma e aspettare in una sala d’attesa che ricordo piccolissima (per me che continuo a credere che tutte le stazioni  del Mondo eccetto Pesaro siano enormi), significava potermi sedere a destra vicino a un finestrino. E a seconda dei viaggi, vedere il Po attraversando lentamente un ponte sferragliante che faceva un chiasso terribile aveva due conseguenze possibili: o mi costringeva a pensare a quanto mi sarebbero mancati tutti gli affetti e quanto fosse lungo quel maledetto viaggio visto il tempo che mi lasciava per pensare o scrivere, oppure mi trasformava facendomi sentire già lontanissima e pragmatica.

E invece questa volta vedo il fiume più lungo d’Italia ed è felicità quella che sento, consapevole di starmi facendo un grandissimo regalo ad esserci. Di nuovo dura un attimo quel momento. Come un monito ripeto a me stessa che la felicità fa sorridere ed amare, ma fa anche essere egoisti. Ricordo nettamente la sagradevole sensazione che trasmette rendersi conto che la felicità di altri fa sí che questi ignorino e trascurino chiunque altro eccetto se stessi. Questa mia felicità vorrei fosse generosa senza essere ingenua. Ah, se fosse piena del Po, della nebbia, del rosso ocra. Improbabilissimo che ci riesca, che io la faccia durare senza spezzarla prima, questa piccola felicità. Fragile e forte come ogni cosa che nasce con il caldo, come il vetro, o come certi affetti estivi.

Mi chiedo se si perderà tra le nebbie della pianura padana o affogherà in un lago delle Prealpi prima che io abbia capito che poteva anche durare per sempre, se trattata con cura, come una mensolina di vetro.

Colonna sonora mista: All Mirrors – Angel Olsen; I Mortali – Colapesce Di Martino

Foto: Lago d’Iseo, ottobre 2020, La prima volta.

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