La dolcezza dei luoghi

Ho trascorso buona parte dell’inverno e della primavera 2021 in un paesino dell’appennino marchigiano. Ho alternato la vita senza differenze tra zone gialla arancione e rossa perché tutti i commerci del paese sono rimasti essenziali e le montagne sempre magiche a prescindere, a dei periodi in città in cui la differenza tra le zone significava la fine del mondo.

Il ritorno ad aprile in un città media e tutta morbida dell’Emilia Romagna ha coinciso con due eventi egualmente miracolosi per i tempi di merda della pandemia ora endemica: lo sbocciare dei glicini e la riapertura dei cinema.

Presa com’ero dalla sbandata che mi ero presa nel 2019 per i profumi freschi e dolci dei fiori bianchi e tutti i sentimenti di pancia che si tirano dietro, mi ero dimenticata del prima.

Il prima sono i fiori lilla. Anche questi, come i bianchi, sono grosso modo gli stessi in tutta Europa anche se sbocciano in momenti diversi, con violette, lillà e glicine che la fanno da padrone.

Questi fiori però son ben diversi dai bianchi. Vengono un po’ prima, hanno un profumo meno invadente e burroso degli altri anche se sono anche loro straordinariamente abbondanti. Così abbondanti che pensi che tireranno giù i terrazzi attorno a cui si attorcigliano, oppure che i loro grappoli si staccheranno da soli dai rami per via del peso, o fanno come le violette, che non sono altro che perenni tappeti dolciastri.

È che sono fiori morbidi, talcati, cipriati, che mi innescano una nostalgia da Diorissimo. Tolette, specchi sticchiati negli angoli, spazzole con dorso di velluto e setole di cinghiale, foto di bambine con leoncini in braccio, la tenerezza di donne anziane, timide, dolci nonne di fantasia in spazi immaginari. Sono quei fiori che da me si fanno voler bene, che addolciscono i contorni delle cose, che si mimetizzano discreti con le case e gli spazi che hanno intorno, per non parlare del fatto che io miope e astigmatica al tramonto li confondo senza problemi coi colori del cielo in cui sfumano.

Sono questi i fiori che hanno accompagnato la mia prima primavera in Italia dopo 14 anni.

E infatti, una sera di inizio maggio mi sono trovata da sola ad andare in bicicletta al cinema per la prima volta dopo oltre un anno in una città emiliana in cui non ero mai andata al cinema e in cui non ero mai stata prima dell’ottobre del 2020, e l’aria ne era infestata.

Ero lì che pedalavo e pedalavo in questo tramonto con l’aiuto di Google Maps attraversando zone che non avevo mai visto per andare a vedere un film di Woody Allen, e c’erano quintali di glicini intorno a me. La città stava diventando brutta mano a mano che mi allontanavo dal centro, a maglia rarefatta, con zone costruite di fretta negli anni ’70 intervallate da campi, con incroci fatti male decenni fa e ancora non rimessi a posto, con superstiti case coloniche in mezzo ai condomini, ma dappertutto ecco i glicini.

Allora mi sono accorta che quella confusione edilizia, quello sviluppo incoerente non lo giudicavo, non la sentivo estranea o distante, non mi faceva sentire a disagio come quando andavo in tram all’Ikea di Berlino Est attraversando i casermoni DDR di Alt-Hohenschönhausen, oppure mi facevo domande socio-politiche sulla speculazione edilizia che aveva deturpato Valencia. No, qua sentivo dentro una vicinanza dolce per quei posti snaturati, grazie a una vicinanza e a una conoscenza delle vicende storiche del posto, così simili a quelle che aveva attraversato la città dove ero cresciuta, e non riuscivo a sentirmi distante.

Mi facevano tenerezza e compassione quei posti, riuscivo a immaginare mia sorella che va a scuola, mio padre che compra una casa ai limiti di quella che era la città allora, nel ’74, e lo spostavo qua.

Mi rendo conto che un discorso così di pancia è un disastro irrazionale, che semplifica forse, rende personale qualcosa che magari non dovrebbe, ma fa tutto parte della primavera e della paziente dolcezza che mi ha portato il ritorno, e che i fiori lilla decorano. L’empatia passa attraverso canali strani, per me ancora imprevedibili e la si può forse provare per momenti storici o spazi. Quella vicinanza profonda non pensavo l’avrei avvertita per spazi così brutti, ma di cui lasciavo perdere la bruttezza o le implicazioni politiche per riuscire a immaginarmi più terra terra delle persone, e il peso di quelle storie. Da lì in poi sono stati molti i posti in Italia per cui ho provato comprensione emotiva e non analitica. Evidentemente mi ci voleva tornare in un posto conosciuto per riuscire a sentirla.

Foto: un glicine impressionante, Emilia-Romagna, aprile-maggio 2021

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