Tutto l’amore possibile

Una volta parlavo con due amici maschi dei periodi storici in cui pensavo mi sarebbe piaciuto vivere. E anche se nel tema di quinta elementare mi ero immedesimata in uno schiavo dell’antico Egitto, quella volta, a circa 28 anni, dissi che mi sarebbe piaciuto vivere nell’immediato dopoguerra, negli anni 50.

Mi emozionava pensare a come le mie due nonne e tante altre donne come lei avessero in qualche modo potuto continuare a vivere nonostante la consapevolezza degli orrori degli anni precedenti. Avessero lavorato, fossero andate a vivere all’estero, avessero sofferto, avessero avuto figli e figlie, alcuni fossero morti neonati, alcuni fossero morti dopo, ma fossero andate avanti.

Mi sembrava che quell’energia indomabile fosse qualcosa di eccezionale, potente, irripetibile, soprattutto qualcosa di cui io ero sprovvista, qualcosa che mi mancava. Qualcosa che non si sarebbe ripetuto perché non c’era motivo di doverne avere, di dover sperare così tanto che la gente di tutto il mondo non si ammazzasse a vicenda e si riuscisse a sopravvivere tra gatti mangiati, lavori in miniera, legna raccolta sul monte e ossa comprate dal macellaio la domenica per il brodo.

Il mio amico, uomo, sensibile eterosessuale cis, mi disse che non si spiegava come facessi io, donna, a pensare a quel momento come qualcosa di positivo, visto che le donne di quei tempi a malapena avevano diritti civili, non era garantita loro indipendenza, possibilità di divorzio, aborto etc.

C’è da dire che l’amico era tedesco, di un paese del sud in cui sapeva le sue famiglie avevano vissuto da generazioni, mentre io non mi raccapezzo bene neanche con i nomi e le provenienze dei miei bisnonni, e soltanto quattro anni fa ho chiesto ai miei di farmi due alberi genealogici, ma quello di mia madre è già confuso appena due generazioni indietro (ripensandoci, quei due alberi li ho chiesti quando ho iniziato a sentire di voler tornare in un posto che sentissi casa, casa senza dover sempre stare a spiegare da dove vengo e perché parlo bene una lingua che nulla c’entra con il paese in cui sto vivendo che ovviamente non è quello in cui son nata).

Eppure. Eppure per me non è che quel momento fosse positivo, non del tutto, la mia sensazione era un’altra.

Era potente, e lo sentivo, al netto della scarsa diffusione degli anticoncezionali. E anche adesso mi chiedo per l’ennesima volta quanta energia, quanta fiducia nel prossimo ancor più che in sé, quanta irresponsabilità e insieme responsabilità, si debba avere per pensare ad avere delle figlie e dei figli, quanto amore per la vita, quanta speranza servano per non pensare alle cose che potrebbero andare male. Per non parlare delle circostanze ambientali e della estinzione della specie cui andiamo incontro,come ho sentito dire a una ascoltatrice di Prima Pagina di Radio3 qualche settimana fa.

Io me lo ricordo davvero quando mi hanno detto che il sole si sarebbe spento tra cinque miliardi e mezzo di anni, ero alle elementari. Mi aveva spaventata a morte , lo raccontavo a chiunque “fra cinque miliardi e mezzo di anni si SPEGNERÀ IL SOLE”. Non riuscivo nemmeno a quantificare bene le decine di anni, era quel momento in cui non sai mai dire quanti anni abbiano i tuoi genitori, fratelli sorelle, figurarsi immaginare miliardi di anni.

Eppure era stato quello di sicuro a farmi percepire per primo la precarietà di ogni giornata. E l’amore e la fiducia cieca che servono per affrontarli.

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