Giorni perfetti ma quando mai

Ho appena letto questa critica e pensieri su Perfect days di Wim Wenders, che io ho visto ormai due mesi e mezzo fa in un freddissimo sabato sera di gennaio e ancora siamo qua a discuterne il che prova  che senza dubbio è diventato uno dei miei film più cari già mentre guardavo le immagini con i vetri colorati dei cessi di Tokyo.

Anche io come l’autrice non ne potevo più della retorica che ne è uscita e che mi ha sderenato l’anima per settimane: l’amore per le piccole cose, la semplicità, il retrò, l’analogico (in musica e in video) e la modestia, tutte cose che credo piacciano più a chi ha il lusso di potersene permettere molte di più o di migliori o a chi si deve convincere che l’invidia non serve mai ed è meglio non farsi venire il fegato amaro desiderando qualcosa che non si può avere né si può vivere rispetto a chi ci deve convivere per forza..

Ma anche se condivido una parte di quello che lei dice, ci vedo ancora troppo ottimismo, o diciamo ancora molta fiducia nelle strategie di sopravvivenza.

Io in Perfect days ho proprio visto un dolore profondo rappresentato con una estetica e una fotografia -per me- meravigliose. Ho visto raffigurato cinematograficamente l’enorme, quotidiano e faticoso lavoro di chi tiene a bada i propri demoni con uno sforzo e una disciplina pazzeschi, con i propri rituali di gestualità e abitudini, che sono strumenti di difesa dalla violenza del mondo esterno, delle relazioni interpersonali, dell’obbligo del successo sociale ed economico, del vincolo dell’identificazione tra persona e professione.

Ogni domenica comprare un libro, ogni mattina guardare il cielo e ringraziarlo sono un obbligo, una necessità di sopravvivenza, non solo e non sempre un piacere.

Nel film è anche rappresentato benissimo cosa accade quando questa impalcatura si becca uno scossone, cosa succede quando ritorna un elemento del passato, o del mondo esterno, un elemento che passa come un trattore sui rituali, che sbilancia totalmente quell’equilibrio così tanto fragile tenuto in piedi con quello sforzo immenso. Gli elementi disturbanti qui sono la sorella e la nipote, le relazioni di affetto più vicine, più emotive e irrazionali. È dopo l’incontro imprevisto con loro, ovvero dopo essersi confrontato con qualcosa che genera dolore e che il protagonista aveva custodito ben bene dietro tuti i saluti al cielo e le pause pranzo con macchine Olympus Mju e sorrisi ironici tra sé e sé la domenica a cena, è a quel punto che Hirayama il buono perde la pazienza sul lavoro, si arrabbia con il collega e il datore di lavoro, piange. Soffre, avendo inavvertitamente abbassato la guardia e permesso al mondo di rientrare dentro.

Tutto il suo sforzo meticoloso di contenimento delle emozioni è vanificato, e ci vorrà tempo per rimarginare quel dolore.

Che storia pazzesca. Con quella luce e quella fotografia. Altro che piccole cose.

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