Comí tu ojo con mi parpado

C’è un momento dell’anno qui da noi nell’emisfero boreale, che, seppur variando un po’ in termini di tempo all’interno delle nostre latitudini, è forse il momento più commovente dell’anno. Una volta esploso il verde scuro di tarda primavera, tutti i fiori che non sono caduti per via di acqua e vento dopo le piogge di aprile sbocciano uno dopo l’altro. Senza fine. Senza tregua. Sono un’infinità di fiori bianchi profumatissimi. Dura diverse settimane e se si ha fortuna e ci si può spostare da un paese all’altro, c’è caso che si insegua questa scia dolciastra e sexy attraverso paralleli e ore legali, tra una città solcata a piedi di notte e una collina vista dal finestrino del treno in pieno giorno.

Stordiscono chiunque, quei fiori: il sambuco è acido, le acacie sono dolci nel naso e sotto la lingua, i tigli sono ovunque, talmente forti che ti tengono sveglia la notte, il gelsomino è potente, così grasso che lascia la pelle unta. Iniziano a farsi invadenti più o meno nello stesso momento in cui l’aria si riempie dei pollini dei pioppi, che certe notti alzi lo sguardo e credi di essere in una piscina ovattata. La notte profumata, scura e muta, i pollini controluce illuminati dai lampioni del centro scendono lentamente a terra. E tu, senza allergie, pensi che sia un sogno e che tanto silenzio ci sia di rado, altrove.

A Berlino sapevamo quali fossero i migliori punti per snasare i tigli più forti. Ce lo dicevamo a vicenda. Amicizie e affetti urbani: con quei boschi così vasti tra di noi non ci mettevamo nulla a considerare normali tutti quegli alberi in mezzo al cemento, e confondere cosa fosse venuto prima tra i due era cosa di poco peso, non l’origine di ogni falso giudizio. Confondevamo le nostre stesse cronologie e pensavamo che essere lì, vedere quelle stesse cose nello stesso momento bastasse a creare affetto. Senza prima né dopo, ma tutto sommato forse neanche il presente. I profumi dei fiori scemano in mezzo a tutto quel senso del dovere, alla città infrasettimanale indaffarata, ai chilometri fatti per soddisfare il più stupido degli sfizi, sfuma il desiderio della più grande delle innamorate, perso dentro quel voler dover sempre fare qualcosa. Fiori sprecati, fiori freddi. Ignorati prima, dimenticati poi.

Non è così ovvio vederli, bisogna stare del tempo lontani, rimuoverli dal proprio paesaggio e dal ricordo dello stesso. E cercarli, con le narici ben spalancate.

I tigli sono talmente forti che ti tengono sveglia la notte, ma soltanto se glielo lasci fare. La tensione deve essere stata grande, ma solo per poi essersi potuta sciogliere in una frazione di secondo dopo ore di giochi e tormenti ad aspettare la notte. Buio, a piedi, la città in silenzio, senza timidezza, la serenità di sapere quanti anni abbiano e da quanti facciano l’amore. Dura mesi poi, anni forse, il ricordo di quell’oscurità. Forme che si incastrano con una facilità tale che è difficile spiegarsi come non abbiano potuto farlo in altri casi. Tutte coinvolte, tutte curiose. Le mani che danno il senso della misura ai corpi e circoscrivono lo spazio. Gli occhi che prendono le distanze e avvicinano chi vogliono quando non sanno più resisterle. Il naso, affondato dove è più scomodo, a registrare sinestesie che ti prenderanno alla sprovvista anni dopo. E la bocca, morbida e prepotente, che pensa sempre di essere così importante e invece è così ingenua. Ci si tiene per mano tornando a casa insieme, a giugno, ci si addormenta abbracciati con la finestra spalancata, si sbircia nei cortili interni di notte con i tigli che ti inondano di rosa, finalmente.

Parole chiave: estate rosa, estate 2019, tiglio

Foto: amore, Bologna, agosto 2019

Soundtrack: Helado Negro – This is how we smile.

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